lunedì 11 febbraio 2019

Swoboda






Abbiamo scelto di commentare questa immagine  di Swoboda, perché come si può vedere, apre il nostro sito, e ne sintetizza almeno in parte, un orientamento metodologico che, almeno nelle intenzioni,  vuole porre sullo stesso livello, con pari dignità conoscitiva, ragione e sentire. Un palcoscenico. Due sedie grigie sullo sfondo. Semplici, spoglie,nude, come due troni disabitati. Ai lati le quinte, nere. L' effetto visivo e il contrasto sono di una bellezza straordinari. Colpiscono l'attenzione due elementi: la profondità e l'essenzialità. E' un'immagine che dà molto da pensare anche per la tensione emotiva che suscita. Sembra che riunisca in sé lo spirito e l'anima del Teatro e dell'immaginario contemporanei, esprimendone le coordinate, le direttive.



 La profondità, a noi pare, rappresenti l'inconscio, la necessità di esplorare ciò che sta dentro e non ciò che sta fuori, ciò che è appunto esteriore e per questo effimero, di superficie; l'inconscio rappresenta il luogo in cui cercare. 

L'essenzialità ne rappresenta se cosi si può dire, l'estetica, il linguaggio, che si esprime, infatti, per sintesi e per sottrazione. 

Queste caratteristiche ci sembrano, infatti, evidenti anche in altri allestimenti.




Il compito dell'Attore è, infatti, di suggerire non di dire esplicitamente. L'Attore porta solo, se così si può dire, la punta dell'iceberg, il resto è in mano al pubblico che ne fa quello che vuole. Non ci sono mai né un senso né un'interpretazione univoche. Non c'è mai giudizio. In Teatro non c'è giudizio, semmai è il pubblico che giudica. E le due sedie grigie sullo sfondo, per chi sono veramente? Perché sono come due troni disabitati? A noi che guardiamo paiono  due Re senza regno, senza sfarzo, senza ostentazione, senza pompa. C'è sì la regalità, ma è nuda, disabitata appunto, come  l' immaginario contemporaneo.



L'Aikido e la sfera dinamica



L'occasione di scrivere alcune riflessioni sull'Aikido, ci è venuta leggendo il  libro di culto Aikido e la sfera dinamica di O. Ratti - A. Westbrook. L' assoluta novità e anche originalità dell'Aikido risiede nel fatto che non solo non è un 'Arte percussiva, come ad esempio il Karate-Do, nei suoi vari stili, che mira, diciamo così "all'eliminazione" dell'avversario, mentre l'Aikido punta alla neutralizzazione dell'attacco e del conflitto, ma anche perché è basato su movimenti in tutte le direzioni, circolari, diversamente da altre arti marziali, almeno quelle giapponesi, quali ad esempio, il Kendo.



L'unificazione di tutti i circuiti fondamentali e di tutte le possibili spirali e semi spirali di neutralizzazione che possono essere tracciate attorno al centro operativo di controllo dell' aikidoista e che lo avvolgono in una serie pressoché illimitata di tracciati circolari, dà, infatti, l'immagine di una sfera.  Da qui il bellissimo titolo del libro. Questa sfera è detta appunto dinamica perché l'energia aggressiva può esservi  incanalata e quindi neutralizzata; proprio per questa sua caratteristica l'Aikido, a livelli molto avanzati, può arrivare a neutralizzare l'attacco di otto aggressori contemporaneamente. 



Una delle novità decisive e distintive, nel bagaglio tecnico dell'Aikido, consiste nel fatto che le tecniche a mani nude, cioè senza armi, in realtà basano i propri movimenti proprio su di esse; laddove, infatti, il corpo viene usato come una lancia o un' alabarda. Inoltre, come già accennato, l' Aikido mira dunque alla risoluzione del conflitto e la sua autentica finalità e la vera vittoria sono rappresentate dall'assenza del combattimento. In questo, l'Aikido, manifesta di avere dietro di sé, un vastissimo bagaglio culturale che affonda le proprie radici nella spiritualità zen e che ha come finalità ultima un proposito etico, il rispetto dell'essere umano in quanto tale e quindi paradossalmente anche dell'avversario, di cui bisogna sì, neutralizzare l'attacco ma senza arrecargli danni irreparabili, come in altre Arti Marziali, anche di origine non necessariamente giapponese.




Tolstoj





L'occasione di tornare su Tolstoj e in particolare su Guerra e pace con alcune nostre personali osservazioni,ci è venuta rileggendo il bel libro di Pietro Citati del 1984: Tolstoj, senz'altro originale nell'impostazione e pregiatissimo nella scrittura, ci sembra però carente, o almeno unilaterale nel punto di vista adottato, perché non stabilisce una relazione di reciprocità tra la dimensione, più propriamente narrativa e la visione della storia di Tolstoj. Infatti, secondo noi, nella sfuggente e vasta complessità umana e storica, messe in gioco dall'Autore con una forza narrativa sempre in espansione, è possibile rintracciare un principio ordinatore, non sempre visibile, solo se si tesse un nesso direi quasi dialettico, tra il mondo storico e quello umano e se si individuano delle relazioni, senza peccare di schematicità, tra i personaggi che queste dimensioni rappresentano. Ad esempio Nataša. Ad uno sguardo più attento, infatti, è quella che nell'economia del romanzo ha la mutazione più profonda anche perché entra in contatto, trasformandoli, con il Principe Andrej prima e con Pierre, poi, al quale lega, infatti, definitivamente il suo destino, sposandolo. Il Principe Andrej rappresenta il mondo storico, la volontà dell'uomo, di legare il proprio nome e il proprio destino a delle gesta indimenticabili,  a quello che lui considera un piano superiore: il mito dell'eroe. Infatti, non a caso, Nastascha, inizialmente, vuole sposarlo, poi è proprio la Guerra, che Tolstoj considera " un atto contro la ragione umana" a cambiarla. Andrej incarna la sete d'infinito, metafisica, che trascende il mondo umano. La guerra per Tolstoj, ha in sé un potere sì di devastazione ma anche di rinascita, di crescita etica. Nataša reincontra Andrej, ferito sul campo di battaglia e lo assiste fino alla fine. Lì, si compie la sua trasformazione interiore, lì comprende l'insensatezza della guerra e si avvicina al mondo umano, affettivo, maturando l'intenzione, dentro di sé di sposare Pierre che Tolstoj contrappone a Napoleone. Per Pierre, infatti, Napoleone rappresenta l' Anticristo e si incarica quindi di ucciderlo quasi fosse una missione per lui.






Tolstoj è il primo della sua epoca a criticarne il mito e a domandarsi quale possa essere in realtà, la vera forza che muove i Popoli, affermando non solo l'imprevedibilità della storia, ma il suo sottrarsi ad una volontà unica, irripetibile, eletta, quella del condottiero, e il suo, invece, essere guidata da milioni di volontà singole, particolari, appunto umane.

Il Mestiere dello scrittore




Il desiderio di scrivere alcune righe su Murakami, ci è venuto, non già, come sarebbe lecito pensare, dalla pubblicazione di un nuovo romanzo, ma di un libro che già dal titolo appare ben più affascinante e spiazzante per un suo lettore affezionato: Il Mestiere dello scrittore. Anche se il titolo potrebbe trarre in inganno, Murakami avverte fin dall'incipit, che non si tratta di una summa di riflessioni sul "romanzo" perché argomento troppo vasto e complesso. Non è, quindi, né una monografia, né un libro di critica letteraria, piuttosto un lungo racconto vivo ed emozionante su come Murakami ha deciso di diventare scrittore e su come poi nel corso della sua carriera, abbia "elaborato", un suo metodo. 

Infatti, l'episodio raccontato, è assolutamente comune, ma straordinariamente vivido ed evocativo nella sua semplice casualità. Nell'aprile del 1978, Murakami assiste ad una partita di baseball al Jingu Stadium, era l'inizio della stagione della Central League. " Il bel suono secco della mazza che colpiva la palla echeggiò nello stadio. Ci furono degli applausi. Fu in quel momento che senza una ragione al mondo, tutt'a  un tratto pensai: " Sì, anch'io posso scrivere un romanzo!" ... avevo afferrato qualcosa che era sceso volteggiando dal cielo."

E' una bellissima immagine, come un dono pieno di mistero e  di grazia, inafferrabile e per questo non spiegabile razionalmente. A parere di chi scrive però, da quest'episodio così comune, si dipana, per intero, come da un gomitolo, la sua visione del mondo e della scrittura. Un segreto indicibile che si affaccia alle infinite possibilità e che apre all'esplorazione dell'animo umano, alla vita così com'è. Scrivere un romanzo non è " consono ad un'intelligenza superiore" anche se istruzione e capacità di base sono richiesti.


Allora cosa serve per scrivere? La risposta sembra naturale: l'originalità. Ma che cos'è l'originalità? il nostro Autore sembra avere le idee precise a riguardo. Distinguersi in modo naturale, spontaneo da tutti gli altri, con uno stile proprio qualunque cosa si faccia: si dipinga, si scriva, si scolpisca, si faccia musica. Soprattutto è necessario evolversi e con il tempo diventare un "classico", un punto di riferimento. Come ad esempio i  Beach Boys oppure i Beatles. " Quella musica ha aperto nel mio spirito una finestra dalla quale è entrata un'aria nuova...Semplicemente senza bisogno di ragionamenti".

 Dunque però cosa scrivere? da dove lo scrittore  prende il materiale? da quelli che Murakami, con un'espressione insolita chiama "cassetti mentali",che sono più o meno "grandi" a seconda dello scrittore; dove ogni cosa, anche la più insignificante, può esservi riposta anche alla rinfusa. " Quella che non può mancare invece è la magia". Come dal cappello di un prestigiatore.  Un cappellaio matto.

Questo, sempre secondo il parere di chi scrive, il grande tratto distintivo di questo libro: non descrivere il processo che sottende, al la creazione letteraria, ma lasciare che si mostri da sé, conservandone intatto l'inesplicabile mistero. 







Ungaretti

La spinta, diremo quasi emotiva, a tornare su Ungaretti con alcune riflessioni, ci è venuta rileggendo alcune sue annotazioni che uscirono sulla " Ronda" nel 1922, contenute nelle sue Ragioni d'una poesia,che figura quale introduzione alla sua Opera poetica, pubblicata per i Meridiani.

Come spesso accade a tutti gli Autori, consacrati di diritto, per indubbi meriti e anche dal tempo,  all'Olimpo del canone letterario, come è il caso lampante di Ungaretti, si corre il rischio di alimentarne un culto astratto, cristallizzato da decenni di attività critica, qualunque sia il giudizio che uno ne voglia dare.


Si rischia, così, di perdere il contatto con la sorgente viva, con il canto originario del Poeta e con la sua propria voce. Questo, infatti, aveva di mira Ungaretti, come avverte in queste sue annotazioni, non " il verso di Jacopone o quello di Dante, o quello del Petrarca o quello del Tasso ...cercavo in loro il canto...". Ungaretti quindi cerca il suo canto e lo fa, come tutti i grandi poeti, con un'attenzione estrema e ossessiva per la lingua, che è per lui uno strumento, diremo quasi per sentire prima e perlustrare poi le profondità dell'essere umano .  

 Non è, a tal proposito, casuale l'interesse che Ungaretti dimostra per Dostoevskij. " ...il mistero non si può negare ed è in noi costante...".Gli abissi umani sono indagabili, diceva anche Jacques Rivière. Allora una domanda. Alla luce di questo , che volto ha la poesia per Ungaretti, soprattutto ne L'allegria, dove ha davanti a sé la terribile esperienza della Prima Guerra mondiale che pone il suo sguardo di poeta su un piano più universale ?   

" ...Di questa poesia\ mi resta\ quel nulla\ d'inesauribile segreto."

"Tra un fiore colto e l'altro donato\ l'inesprimibile nulla". 

Qual è l'energia interna di questi versi, e per estensione, che potrà forse apparire eccessiva, di tutta la sua opera poetica? 
ll fatto che è un miracolo, che c'è perché non può non esserci. In questo senso la Poesia non è mai contemporanea a nulla, e in particolare noi pensiamo quella di Ungaretti, per il quale estetica  ed etica sono sullo stesso piano e perché ha sempre cercato nella sua lunghissima vita, una coerenza interna, quasi come una testimonianza, etica appunto, tra la sua vita di artista e di uomo.   Ha, infatti, sempre cercato con strumenti, sì, mutati nel tempo per forma e carattere, una dimensione però originaria in cui tutti gli uomini possano abitare e riconoscersi nella loro universalità di esseri umani.

" Di che reggimento siete\fratelli? Parola tremante\ nella notte\ Foglia appena nata\ Nell'aria spasimante\ involontaria rivolta\ dell'uomo presente alla sua\ fragilità\ Fratelli"



Reynaldo Hahn

Ci è sembrato interessante e opportuno tornare con alcune osservazioni  sul libro di culto, almeno per gli appassionati d'Opera, di Reynaldo Hahn, Lezioni di canto, che raccoglie i testi di nove lezioni  scritte nel 1913 quando aveva poco più di quarant'anni ,e sotto alcuni aspetti ancora terribilmente attuali. L'autore si domanda fin dalla prima lezione quale sia il segreto del canto e il perché si canta. Difficile dare una risposta univoca, probabilmente non ce ne sono, almeno da un punto di vista teorico, visto che cantare è anche un atto " concreto" e " pragmatico" che " avviene" e interessa anche i nostri sensi. 


Il valore autentico del canto, la sua vera ragione, ciò che ne costituisce la sua bellezza più propria, ricorda Hahn, "... è la combinazione,..., è la fusione del suono e dell'idea". Il suono per quanto bello possa essere è nulla se non dice niente. Si tratta di riconoscere una relazione molto stretta tra parola e canto.  La vera bellezza di una voce sta " in un 'amalgama. Un 'alleanza misteriosa di voce - che - dice e voce - che - suona. In altre parole di melodia e parola". C 'è una stretta interdipendenza tra melodia e parola. La parola ha in sé " forme del sentimento e del pensiero" e comunica alla melodia quei significati così che possa agire direttamente sul cuore e la mente delle persone. Il mondo del suono e della parola esistono e si esprimono in modo diverso l'uno dall'altro ma sono stretti da una comunicazione reciproca. Sono come dei vasi comunicanti.


Già allora Hahn, acutissimo osservatore del suo tempo, lamentava però la mancanza, anche per i cantanti professionisti di un metodo e di un 'educazione della voce. Problema invero ancora attuale.



Un rilievo centrale nel suo metodo occupa la respirazione. Ognuno, ricorda l'Autore, trova "naturalmente" il suo modo di respirare, ma per arrivare a questo deve " dimenticare", la respirazione di  petto e attraverso la mobilizzazione del diaframma, imparare quella così detta "sul fiato" e  anche una postura corretta, dritta e aderente al suolo, come i cantores medievali, per consentire al suono un 'emissione in " maschera" ed evitare così un canto "ingolato", cioè chiuso e che rappresenta la morte della voce.   

Solo dopo una tecnica consolidata e acquisita con un lungo e faticoso lavoro di cesello, cantare può diventare naturale perché non richiede solo una forza muscolare, ma una continua tensione dell'intero organismo "sotto il ferreo controllo della mente".     

Peccato che queste lezioni, già "inascoltate", verrebbe proprio da dire, nella sua epoca, lo siano ancora oggi, dove è disperante la mancanza di Maestri che trasmettano ai loro allievi la necessità di un impegno rigoroso e continuo e l'importanza di un metodo unitario e coerente, requisiti senza i quali semplicemente la musica, nei suoi pur multiformi stili, non ha ragion d'essere, se non solo a livello casuale e dilettantistico.