mercoledì 27 gennaio 2021

Le lacrime degli eroi


Il bellissimo libro di Matteo Nucci, Le lacrime degli eroi, sui Poemi omerici,  si segnala, sin dal titolo, che è diremo quasi una dichiarazione di intenti,  come una novità  assolutamente originale, perché indica nel pianto la via principe e anche  una dimensione dell’essere,  per esplorare fin nei più minuti e riposti particolari, il complesso, cangiante e multiforme mondo degli Eroi; dalle passioni così forti e violente da essere considerati, anche perché danno voce ad un immaginario collettivo, esseri sovraumani e per questo invincibili e impenetrabili alle debolezze umane.

Tra gli Eroi, spicca senz’altro Odìsseo, che nel Poema a lui dedicato,  non  è solo, come ci racconta Dante, un uomo dominato da un’ insaziabile curiosità di sapere e, infatti, a testimonianza di ciò, tra gli epiteti a lui attribuiti, che sono specificatamente suoi e di nessun altro, il secondo è  polytlas, in cui spicca il verbo tlemai che ha il significato, nient’affatto casuale di “ resistere”, “sopportare” e che dunque non può non richiamare le molteplici sofferenze e gli infiniti patimenti che Odìsseo è costretto a subire prima di tornare a pieno titolo a casa, eventi tutti, che lo arrichiscono e lo trasformano profondamente, anche da un punto di vista etico: come uomo.

Tant’ è vero, che i libri in cui  fa la parte dell’aedo, sono  quelli delle avventure che tutti conoscono, da Polifemo alle Sirene, ma sono soprattutto quelli nei quali il poeta fa mostrare al suo eroe, concetti che diventeranno cardine nella Grecia classica e che nulla hanno a che fare con l’astuzia o con l’avidità di conoscere, ma piuttosto con la sofferenza che porta alla conoscenza, come si legge nei due bellissimi versi di Eschilo dell’ Agamennone: pathei mathos, e che qui sono, infatti, emblematici di un capovolgimento di prospettiva.

Non c’è una crescita dell’eroe, durevole e autentica, solo attraverso mirabolanti imprese o eroiche gesta, ma, c’è crescita,  anche dall’accogliere in sé le sofferenze dell’ altro, e, infatti, Odìsseo non piange, per le sofferenze patite durante le sue tribolazioni ma, piange, semmai e più profondamente,  per la morte degli amici  che incontra nell’ Ade.
Non è l’astuzia, ma sono piuttosto le lacrime, ad indicargli la via del ritorno.


Già… le lacrime, sono ancora lì. Spettatrici attente e silenziose … ci scrutano… immobili nel cielo stellato,… custodi sapienti di antiche gesta, rimangono,.. lì,… sospese, con la loro voce,… come ad indicarci la via e sembrano dirci o quasi sussurrarci che non si diventa uomini, se non le accettiamo come condizione essenziale, quasi come sorelle nel nostro lungo e tortuoso cammino, se non le accettiamo come parte pù profonda di noi stessi, come strumento per comprendere le enormi possibilità dell’esistere e dell’umano a cui noi tutti siamo affacciati.


  




















IL sogno tra Psicoanalisi e Neuroscienze


Le riflessioni di Piergiorgio Strata contenute nel suo libro dormire forse sognare,   costituiscono un’importante sintesi  di un ampio e articolatissimo dibattito, avviatosi nel 1990, che ha al suo centro i rapporti, enormemente complessi,  tra Neuroscienze e Psicoanalisi, un libro, che noi consigliamo,  anche per l’asciutezza e la godibilità dello stile che non vanno però a scapito, né della profondità né della ricchezza delle argomentazioni.


Il sonno e l’attività onirica a esso associata, hanno interessato fin dai tempi più remoti, l’attività e le riflessioni di filosofi, scienziati, ricercatori di ogni sorta e anche artisti, a seconda delle epoche e comunque sempre in linea con i tempi storici, producendo  una vastissima mole di risposte, alcune validate da evidenze scientifiche, altre alquanto bizzarre, sempre utili però, per poter ripercorrere i mutamenti che hanno caratterizzato l’interpretazione dei sogni. Ad esempio, se oggi l’uomo moderno sogna di viaggiare in aereo o di essere bocciato all’esame di maturità, migliaia di anni fa, l’uomo sognava di essere trasportato in cielo da un’aquila o di essere punito da una divinità. Basti pensare,   alla variegatissima influenza che  il mito greco ha esercitato sull’arte moderna, rappresentando per secoli, l’immaginario dal quale l’uomo del tempo, anche inconsapevolmente attingeva e esprimeva nei suoi sogni, e questo anche perché, in passato, si pensava molto di più attraverso le immagini.  Il sogno, infatti, per quanto ovvio possa apparire sottolinearlo,  si è sempre espresso attraverso immagini.      

Il pensiero freudiano e la sua ingombrante eredità, sono state oggetto, in questi ultimi decenni di una profonda e amplissima revisione teorico - clinica, che qui sarebbe impossibile ripercorrere anche solo nelle sue linnee essenziali. Giova però ricordare, pur se con estrema sintesi, che le relazioni e   anche le sovrapposizioni tra Neuroscienze e Psicoanalisi, che ci sono e che sarebbe del tutto fuorviante e del tutto inutile negare e, quindi, le vaste implicazioni che ne derivano,  sono state spesso viste con sospetto, per il timore,  di una perdita di statuto teorico e quindi anche di identità  e di autonomia soprattutto  di quest’ultima .


La debolezza principale della costruzione freudiana, sottolinea  l’autore,  risiede nel fatto che nulla di quanto emerge nel sogno può essere sottoposto “ ad analisi sperimentale secondo i codici in uso nel metodo scientifico di galileiana memoria”, debolezza già ravvisata da karl Popper, eminente filosofo della scienza del Novecento, per il quale, infatti, già nel 1972, le teorie della psicoanalisi, non potendo essere sottoposte al principio di falsificazione, non avevano credibilità scientifica,  e per tanto Strata sostiene che non è sempre facile e automatico collegare il sogno ad un disagio mentale, proprio perché secondo le attuali acquisizioni delle  Neuroscienze, l’inconscio che conosciamo, non corrisponde più al modello freudiano.

A conferma di ciò, sempre di più, oggi è stata avvertita l’esigenza, di fornire un substrato fisico – chimico ad ogni aspetto dell’attività mentale, diversamente da quanto, invece, faceva Freud, il quale, rifiutava ogni spiegazione del sogno che potesse riferirsi a fattori di natura fisiologica e da questo ne conseguiva che la struttura cerebrale “ era considerata un territorio passivo sul quale aleggiavano i processi mentali”.


Noi pensiamo, però, che possa essere  emblematico e dalle risonanze emotive ed epistemologiche    incalcolabili sulla natura e l’orientamento dei futuri dibattiti scientifici,   sottolineare il fatto che Eric kandel,  premio nobel per la medicina nel 2001, lo ha dedicato, appunto, a Freud, auspicando, così, con un gesto di fortissimo valore storico - simbolico, la necessità di un approccio multidisciplinare nell’esplorare l’animo umano, e di una possibile integrazione dei due modelli proposti dalla Psicoanalisi e dalle Neuroscienze, in un  continuo e fecondo dialogo, perché configgano sempre meno e trovino la via della conciliazione,  mantenendo, cioè, in completa autonomia, pur nel reciproco scambio, ognuna, il proprio statuto teorico, il proprio paradigma epistemologico e soprattutto, mantenendo ognuna, intatto,  il proprio  metodo.    

  




 


sabato 9 novembre 2019

Dracula.





E’ stata un’ occasione  del tutto personale e accidentale, ma per questo feconda di risonanze emotive profonde, a suggerirci di tornare sulla figura di Dracula e il suo mito: la visione di Dracula, film del 1992, per la regia di Francis Ford Coppola,  anche se lontano  dal fascino e dalla complessità anche psicologica del Conte Dracula, almeno quale emerge dagli autori di prima grandezza che se ne sono occupati, soprattutto dell’ Ottecento, tra i quali,  spiccano, per l’assoluto magistero letterario raggiunto, E. T. A Hoffmann  e Nikolaj Gogol’, che con Il Vj (1835) produce la sua novella più perfetta.

Intanto, in Inghilterra, patria  del Romanzo Gotico, la figura del Vampiro era entrata nell’immaginario, almeno al livello della nascente stampa popolare. E’ in questo contesto, come si può facilmente intuire, assolutamente favorevole,  che Bram Stoker, scrive Dracula, e che ha come vedremo un’origine assolutamente particolare: un sogno. Quindi per meglio dire più che scriverlo, Stoker visualizza il romanzo, cioè alla base della sua creazione non c'è un atto razionale, o non solo, ma bensì una  visione.  

 Era una notte di Marzo del 1890, quando Stoker svegliatosi di soprassalto, da un incubo o visione notturna se si preferisce, tracciò in fretta queste righe su un foglio di carta:

Un giovane esce, e vede tre fanciulle.
Una di loro cerca di baciarlo, non sulle labbra ma sulla gola.
Il vecchio Conte interviene.
Con rabbia e furia diaboliche.
“ Quest’uomo mi  appartiene . Io lo voglio.”

In quest’ esile traccia così trascritta, c’ è in nuce tutto il romanzo, e stupisce, come da un’embrione così concentrato, si sia potuto sviluppare un organismo narrativo ampio e  articolato nella trama e nella struttura. E’ palpabile, fin da queste righe, una venatura erotica, che rappresenta uno dei motivi del suo straordinario successo, fin dalla sua pubblicazione, il libro uscì nel 1897, perché la figura del Vampiro è diventata il simbolo liberatorio nei confronti delle repressioni vittoriane in materia sessuale. 

Dracula, è in effetti espressione di una sessualità talmente prorompente da essere totalizzante (ed in questo il film di Coppola riesce perfettamente a rappresentare tale natura).  L’unione con Lui non significa solo e soltanto perdita della purezza e dell’innocenza, ma remissione e annullamento totale di sé, assorbimento nella non vita, nei non morti, quindi, esclusione sia da questo mondo che dall’altro.





Il sesso, diviene, qui, contaminazione assoluta e espressione di un disordine universale, in cui cadono non soltanto i limiti della normale morale sessuale, comunemente accettata, ma persino i confini fra morte e vita, in una sorta di “stupro cosmico” contro le leggi della natura.

Se però il tema erotico era presente e connaturato già in epoca classica con la leggenda stessa del Vampiro, e ripreso da molti autori, nel suo romanzo, Stoker aggiunge, un tratto originale, che trova le sue premesse culturali e la sua giustificazione più profonde,  proprio nel positivismo di matrice vittoriana. Stoker, infatti, pur accettandone l’origine soprannaturale, cerca di spiegarne i comportamenti, con strumenti razionali, sulla base di leggi naturali, al lume della sola ragione. Si assiste, quindi, a un paradosso. Stretto fra due poli , apparentemente opposti e contraddittori, quali -  l’origine medievale della tematica e la trattazione positivistica degli eventi, già frequentata da molta letteratura romantica - , Il Dracula, di Bram Stoker, diventa figura dall’alto valore simbolico. E’ colui, che non soltanto ribalta l’ordine e il corso naturale degli eventi, ma è anche incarnazione e erede delle energie istintuali, che giacciono al fondo dell’uomo, e che diventano terribili e incontrollabili, appunto bestiali, una volta scatenate. 
   
Questa fortissima suggestione, noi pensiamo, è anch’essa uno degli ingredienti alla base, dell’enorme successo del romanzo. Dracula è forse l’unico personaggio puramente letterario che abbia inciso a tal punto su un immaginario collettivo, da produrre, in alcuni casi, alla stregua di poche altre figure storiche, un processo di identificazione, così da poter arrivare, ai giorni nostri, con una potenza profetica e visionaria, pressoché intatte e per questo ancora attuali.   
  
  

La Chimera e il nulla. Ai confini della poesia e della storia.


La Chimera di Sebastiano Vassalli, è stata riedita, del resto come tutta la sua opera, da Rizzoli, con un’appendice dello stesso Autore, che ha per titolo: Alcune considerazioni su questo romanzo dopo un quarto di secolo; la Chimera esce appunto nel 1990.

 Seguendo l’esempio di Manzoni, che credeva di riscoprire nel Seicento le radici dell’Italia moderna e che credeva che appunto in quel secolo, si fossero formate il carattere, l’indole e l’identità stessa degli italiani, e che due avvenimenti del recente passato, la Controriforma della Chiesa Cattolica, da un lato, e la dominazione spagnola a Milano e a Napoli, dall'altro, abbiano costituito la radice e l’origine del nostro carattere nazionale, anche Sebastiano Vassalli,  decide di ambientare il suo romanzo nel Seicento. Lo spirito però che anima Manzoni, anche se è stato il primo a riflettere sul carattere degli italiani,   è completamente diverso. Infatti, uomo del Risorgimento, cioè della sua epoca, Alessandro Manzoni rappresenta il Seicento,  “corretto con molto Ottocento”, basti pensare alla figura di Don Abbondio che è un prete contemporaneo del suo autore, scegliendo, per questo,   di darne una rappresentazione edulcorata  e  di non  raffigurarlo per quello che in realtà il Seicento fu: secolo terribile e violento . E questo anche perché, l’Italia, che doveva ancora nascere, ci si augurava che nascesse con i migliori auspici e con il suo aspetto migliore.

Vassalli, si situa, invece, in una posizione e in una prospettiva completamente diverse, opposte persino, dipingendo il Seicento così com’era, senza aggiungervi né togliervi nulla, nelle sue turpitudini, nelle sue nefandezze, nei suoi vizi, nelle sue terribili bestialità, ma anche nella sua tragica bellezza. Così, infatti, è sempre stato l’uomo e chissà, sempre così sarà, certamente non sostanzialmente diverso da come è oggi. 

Antonia, protagonista di questa storia, diventa espressione proprio di questa tragica bellezza, emblema dei destini umani, rappresentando uno spazio a sé, in cui si alterano e si modificano profondamente l’ordine e il corso naturale delle cose e degli eventi, rispetto ai quali, soprattutto dopo la sua condanna a morte come strega, si viene ad attuare un profondo cambiamento nella concezione del mondo, della vita e della persona. Antonia costituisce appunto, uno scarto, uno spartiacque tra un prima e un dopo, rifondando, anche se del tutto inconsapevolmente, il mondo, secondo una prospettiva mitica che ha in sé il potere sia di sconvolgere, sia però anche di inaugurare  una nuova concezione del tempo e dello spazio, dilatati,   e non più solamente lineari, in cui tutto è possibile e quindi tutto può accadere,  che anche la brutalità più efferata diventi norma.  Il Seicento, come ebbe a dire anche George Steiner, forse il secolo più brutale della storia dell'umanità, anche più del XX secolo, viene rappresentato in tutta la sua verità, ben lontana, quindi, dalla visione ideale ottocentesca. 

Cosa sono, infatti, le vite di noi tutti, riflette Vassalli, se non altro che un inutile sperpero nel vano e assordante clamore del presente, cos’altro sono, se non  un’ombra e un impercettibile respiro, rispetto al nulla e alla notte, in cui tutti siamo immersi e a cui noi tutti siamo destinati, cosa siamo, infine,  noi tutti,  se non una folle, fuggevole Chimera, appunto?  


Ulisse. Il destino dell'uomo tra nostos e lbertà.


Tra i numerosissimi studi sul pensiero antico e in particolare sulla sua Letteratura, soprattutto  quella greca, ci ha colpito, fin dal titolo, il libro di Valerio Massimo Manfredi: Mare  greco. Eroi ed esploratori nel Mediterraneo antico. Infatti, richiamare l’attenzione sul Mediterraneo che, prima di essere luogo dello scontro tra Islam e Cristianesimo, era il bacino egemonizzato dalle navi greche per diffondere ovunque le usanze e la cultura della madrepatria, ci è sembrato interessante, o quasi necessario, per ricordare, a noi occidentali, che lì abitano le nostre radici, lì sono nate la nostra identità e la nostra natura più profonde.

In una civiltà, non va affatto dimenticato, alla base della quale, vi erano i miti e le leggende, di uomini che per primi avevano intrapreso le rotte del mare interno, sfidando, in modo eroico, non solo la paura dell’ignoto ma anche sé stessi,  dimostrando, così, un’ inesausta sete di conoscenza, in cui, si esprimeva anche la loro aspirazione a conoscere popoli diversi da loro, ad aprirsi e a confrontarsi, si direbbe oggi, con  “l’altro da sé”, senza averne paura.  
  
 Quello di Manfredi è uno straordinario viaggio nel mito che propone alcune interpretazioni nuove e originali, come l’ubicazione dell’isola di Calipso, delle terra dei Ciclopi, e anche di Odìsseo, e questo, anche per ovvi motivi, non è affatto scontato.




Il distruttore di Troia, ci viene presentato, sin dall’incipit dell’ Odissea, come pulotropon, letteralmente  “dai molti modi”  o se si preferisce “ molteplice”,  “multiforme”, aggettivi ai quali, è utile ricordarlo, è stato attribuito un significato, sostanzialmente negativo, che caratterizza Odìsseo, almeno prevalentemente, come una figura ambigua,  ingannevole, talmente astuta da evitare, da tenere lontana. 
   
Ci appare come un uomo, abbattuto dall’amara sorte, quasi annullato dal terribile destino, un uomo che ha perso tutto, infine la sua stessa libertà; è infatti, prigioniero, da sette anni, di una bellissima ninfa, Calipso, che lo tiene tutto per sé, in un’ isola meravigliosa, quasi una sorta di terra beata, di Paradiso Terrestre, ma nondimeno, Ulisse rifiuta l’immortalità che gli viene offerta, anche se il suo cuore è pieno di sconforto e di angoscia perché il ritorno gli viene negato .

 In questo stato d’animo si può vedere tutta la distanza che separa l’uomo cristiano dall’uomo antico. La tradizione biblica e la redenzione, si basano tutt’e due, sulla tragedia e sul rimpianto del paradiso perduto. Una sorta di nostalgia appunto, e infatti, cos'altro significa questa parola se non,  ritorno di un dolore?

Ulisse sceglie, invece, di vivere la sua vita di uomo, di creatura fragile, preda della malattia e della vecchiaia,  partecipe di  un’avventura   impossibile e impagabile, ma per questo incomparabilmente più bella: di cercare la patria sempre amata e sempre sfuggente.

Questo lavoro, è una sintesi perfettamente riuscita, tra letteratura, storia e archeologia, condotta, sì, con la precisione e il rigore di uno storico, ma anche, e questo è un merito molto raro, con la grazia e l’eleganza di un romanziere, in cui, l’autore, ci ricorda l’importanza di non dimenticare quali sono le nostre origini, ma anche ci riconcilia con il coraggio, e,  quindi, anche con la precarietà e l’impermanenza, di un eroe, così, finalmente “ umanizzato”.







Campana. La notte e il nulla come destino dell'uomo.


La notte della cometa, romanzo sulla vita e il destino terreno di Dino Campana, il “babbo matto”, così lo definisce il suo autore, Sebastiano Vassalli, è stato riedito da Rizzoli  nel 2015. Dopo trent’anni dalla sua pubblicazione, era il 1984, mantiene intatto il suo fascino, e, per i motivi che diremo, rappresenta oggi, ancora più di ieri, un’occasione per riflettere sulla natura profonda e insondabile della Poesia.

Già dal titolo,  quest’autobiografia è eloquente circa il destino di Dino Campana, che fu un’assoluta eccezione nel panorama accademico e stagnante dell’Italia di quell’epoca,  di cui fu vittima, dominato com’era dalla moda e dalla retorica futuriste; infatti, La notte della cometa sembra avere in sé già una visione dell’arte e della poesia come spazio assoluto, originario e per questo universale,  per poter  raccontare le passioni e i destini umani, quindi, apertamente in contrasto e oltre l’immediatezza dei manifesti letterari, delle mode e delle stereotipate definizioni dell’establishment del suo tempo.

 La notte della cometa… già sembra di udire come un’eco lontana, una voce fatta di silenzio e di oblio che ci parla di un mondo sommerso, dal quale sembrano emergere solo frammenti, come dei bagliori (…) e a un tratto dal mez/zo l’acqua morta le zingare e un canto, da la palude\/ afona una nenia primordiale monotona ma irritante: e del tempo fu sospeso il corso. E’ come se ci si trovasse nel dormiveglia, in uno stato in cui i nessi logici tra le cose e le parole sembrano allentarsi, diventando in questo modo però più potenti ed evocativi, per raccontarci la storia di un oltre , di un mondo lontano , più vasto, dove il nostro sguardo si perde, … là in alto, nel cielo stellato (…) Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti/ E l’immobilità dei firmamenti/ E i gonfi rivi che vanno piangenti/ (…) E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti/ E ancora ti chiamo  ti chiamo Chimera.

 Dino Campana pagò caramente, con la totale emarginazione dai circoli letterari della sua epoca, la sua idea quasi epica, “ eroica” della Poesia, clandestina appunto, perché non  contemporanea a nulla, sfidando l’indifferenza e l’ostracismo di intellettuali, tra i più influenti del suo tempo, come Soffici e Papini, che lo isolarono completamente, lasciandolo in balìa del suo folle tragico destino: una Chimera appunto, un’apparizione che ha lasciato, sì, un segno profondo ma quasi involontario, inconscio, inavvertito, quasi come una stella cadente che risplenda, per pochi attimi, come in un sogno, per poi tornare di nuovo nell’oscurità, lasciandoci increduli, stupefatti, come in una fiaba…  Questo, ahimé, fu l’amaro destino di Dino Campana, che non fu certamente un grande poeta come Goethe, ma che ebbe il merito indiscusso di proporre, con la sola forza della sua anima e del suo destino, una poesia che esplorasse i confini dell’umano e del sogno, una  “ voce”  che cantasse la notte,  pur se con l’intensità assoluta ma, ahimé troppo breve, di una Cometa.   

Lovecraft. Alle origini del fantastico e del meraviglioso come condizione dell'esistere umano.


A suscitare il nostro desiderio di tornare su Lovecraft con alcune riflessioni, che come vedremo, andranno al di là della sua stessa opera, hanno agito due elementi. Da una parte, la pubblicazione per la Newton Compton di Tutti i romanzi e i racconti, edizione che comprende una scelta importante della sua sterminata produzione saggistica, che,  noi pensiamo, possa essere utile per retro illuminare e comprendere le motivazioni più profonde della sua narrativa, troppo spesso semplicisticamente interpretata, come una rivolta ideale, contro le costrizioni “ imposte” dalla ragione; dall’altra la visione di It, del 1990, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen king.

Entrambi questi autori, pur se in epoche completamente diverse, e con esiti molto diversificati, anche in sede estetica, hanno esplorato il mondo del fantastico, costruendone una vera e propria Geografia, e questa, ciò vale soprattutto per Lovecraft, solo apparentemente e in superficie è priva di trama e di senso logico, ma invece, come ha osservato  Pietro Citati, dietro ogni testo abita un testo nascosto: dentro i libri che noi vediamo, ce ne sono altri, segreti, che non vediamo,  e di cui lo stesso Lovecraft,   è inconsapevole e nemmeno sa di avere scritto.  E’ come se, proseguendo questa bellissima immagine, ci si trovasse in un labirinto fatto ad incastro, e di fronte ad una porta se ne aprisse un’ altra, così, di seguito,  senza interruzione,   come in un unico sogno, all’infinito.  Quindi, è come se,  ci si trovasse di fronte a innumerevoli e fuggevoli  apparizioni dello stesso “ discorso”, al quale l’Autore, sembra non mettere  mai la parola “fine”, e che però affiora, attraverso il ritorno di alcuni simboli, o rapporti interni, o segrete corrispondenze, nelle quali,  è possibile, così , “  leggere” una trama.

Quale può essere allora, ci domandiamo, la radice dell’inspiegabile fascino,ancora oggi esercitato   dopo decenni dalla sua morte, dal solitario di Providence?

Forse una risposta,  anche se incompleta e parziale, si può trovare, in un suo saggio, Tempo e spazio, in cui l’Autore si domanda “ (…) dobbiamo ricordare che lo spazio non ha confini,(…) abissi illimitati si estendono oltre la nostra vista e la nostra comprensione (…). Quale mente osa tentare di immaginare quei regni lontani dove forma(…), materia ed energia, possono essere soggetti a mutamenti impressionanti (…) e, vorremmo aggiungere, al di là del nostro controllo,  o di quello che la nostra sola “ragione” può immaginare?  Proprio qui, in queste poche righe, si può trovare, almeno una, delle  tante ragioni possibili, per comprendere il fascino di Lovercraft.

 Lovecraft, non solo non ha avuto paura di indagare le più inconfessabili e  segrete paure, i fantasmi più profondi e originari dell’uomo, ma ha avuto il grande talento di dar loro forma e corpo, un “volto”, per poterli, così, finalmente accettare e riconoscere, come condizione essenziale del nostro cammino, ricordandoci, infine, la vastità e le  enormi possibilità dell’esistere, alle quali, noi tutti, in quanto membri di una specie, siamo sempre affacciati e siamo destinati a vivere.