sabato 9 novembre 2019

Ulisse. Il destino dell'uomo tra nostos e lbertà.


Tra i numerosissimi studi sul pensiero antico e in particolare sulla sua Letteratura, soprattutto  quella greca, ci ha colpito, fin dal titolo, il libro di Valerio Massimo Manfredi: Mare  greco. Eroi ed esploratori nel Mediterraneo antico. Infatti, richiamare l’attenzione sul Mediterraneo che, prima di essere luogo dello scontro tra Islam e Cristianesimo, era il bacino egemonizzato dalle navi greche per diffondere ovunque le usanze e la cultura della madrepatria, ci è sembrato interessante, o quasi necessario, per ricordare, a noi occidentali, che lì abitano le nostre radici, lì sono nate la nostra identità e la nostra natura più profonde.

In una civiltà, non va affatto dimenticato, alla base della quale, vi erano i miti e le leggende, di uomini che per primi avevano intrapreso le rotte del mare interno, sfidando, in modo eroico, non solo la paura dell’ignoto ma anche sé stessi,  dimostrando, così, un’ inesausta sete di conoscenza, in cui, si esprimeva anche la loro aspirazione a conoscere popoli diversi da loro, ad aprirsi e a confrontarsi, si direbbe oggi, con  “l’altro da sé”, senza averne paura.  
  
 Quello di Manfredi è uno straordinario viaggio nel mito che propone alcune interpretazioni nuove e originali, come l’ubicazione dell’isola di Calipso, delle terra dei Ciclopi, e anche di Odìsseo, e questo, anche per ovvi motivi, non è affatto scontato.




Il distruttore di Troia, ci viene presentato, sin dall’incipit dell’ Odissea, come pulotropon, letteralmente  “dai molti modi”  o se si preferisce “ molteplice”,  “multiforme”, aggettivi ai quali, è utile ricordarlo, è stato attribuito un significato, sostanzialmente negativo, che caratterizza Odìsseo, almeno prevalentemente, come una figura ambigua,  ingannevole, talmente astuta da evitare, da tenere lontana. 
   
Ci appare come un uomo, abbattuto dall’amara sorte, quasi annullato dal terribile destino, un uomo che ha perso tutto, infine la sua stessa libertà; è infatti, prigioniero, da sette anni, di una bellissima ninfa, Calipso, che lo tiene tutto per sé, in un’ isola meravigliosa, quasi una sorta di terra beata, di Paradiso Terrestre, ma nondimeno, Ulisse rifiuta l’immortalità che gli viene offerta, anche se il suo cuore è pieno di sconforto e di angoscia perché il ritorno gli viene negato .

 In questo stato d’animo si può vedere tutta la distanza che separa l’uomo cristiano dall’uomo antico. La tradizione biblica e la redenzione, si basano tutt’e due, sulla tragedia e sul rimpianto del paradiso perduto. Una sorta di nostalgia appunto, e infatti, cos'altro significa questa parola se non,  ritorno di un dolore?

Ulisse sceglie, invece, di vivere la sua vita di uomo, di creatura fragile, preda della malattia e della vecchiaia,  partecipe di  un’avventura   impossibile e impagabile, ma per questo incomparabilmente più bella: di cercare la patria sempre amata e sempre sfuggente.

Questo lavoro, è una sintesi perfettamente riuscita, tra letteratura, storia e archeologia, condotta, sì, con la precisione e il rigore di uno storico, ma anche, e questo è un merito molto raro, con la grazia e l’eleganza di un romanziere, in cui, l’autore, ci ricorda l’importanza di non dimenticare quali sono le nostre origini, ma anche ci riconcilia con il coraggio, e,  quindi, anche con la precarietà e l’impermanenza, di un eroe, così, finalmente “ umanizzato”.







Nessun commento:

Posta un commento