Tra i numerosissimi studi sul pensiero antico e in
particolare sulla sua Letteratura, soprattutto
quella greca, ci ha colpito, fin dal titolo, il libro di Valerio Massimo
Manfredi: Mare greco. Eroi ed esploratori nel Mediterraneo
antico. Infatti, richiamare l’attenzione sul Mediterraneo che, prima di
essere luogo dello scontro tra Islam e Cristianesimo, era il bacino
egemonizzato dalle navi greche per diffondere ovunque le usanze e la cultura
della madrepatria, ci è sembrato interessante, o quasi necessario, per
ricordare, a noi occidentali, che lì abitano le nostre radici, lì sono nate la
nostra identità e la nostra natura più profonde.
In una civiltà, non va affatto dimenticato, alla base della
quale, vi erano i miti e le leggende, di uomini che per primi avevano
intrapreso le rotte del mare interno, sfidando, in modo eroico, non solo
la paura dell’ignoto ma anche sé stessi, dimostrando, così, un’ inesausta sete di
conoscenza, in cui, si esprimeva anche la loro aspirazione a conoscere popoli diversi da loro, ad
aprirsi e a confrontarsi, si direbbe oggi, con
“l’altro da sé”, senza averne paura.
Quello di Manfredi è uno straordinario
viaggio nel mito che propone alcune interpretazioni nuove e originali, come
l’ubicazione dell’isola di Calipso, delle terra dei Ciclopi, e anche di
Odìsseo, e questo, anche per ovvi motivi, non è affatto scontato.
Il distruttore di Troia, ci viene presentato, sin
dall’incipit dell’ Odissea, come pulotropon,
letteralmente “dai molti modi” o se si preferisce “ molteplice”, “multiforme”, aggettivi ai quali, è utile
ricordarlo, è stato attribuito un significato, sostanzialmente negativo, che
caratterizza Odìsseo, almeno prevalentemente, come una figura ambigua, ingannevole, talmente astuta da evitare, da
tenere lontana.
Ci appare come un uomo, abbattuto dall’amara sorte, quasi
annullato dal terribile destino, un uomo che ha perso tutto, infine la sua
stessa libertà; è infatti, prigioniero, da sette anni, di una bellissima ninfa,
Calipso, che lo tiene tutto per sé, in un’ isola meravigliosa, quasi una sorta
di terra beata, di Paradiso Terrestre, ma nondimeno, Ulisse rifiuta
l’immortalità che gli viene offerta, anche se il suo cuore è pieno di sconforto
e di angoscia perché il ritorno gli viene negato .
In questo stato
d’animo si può vedere tutta la distanza che separa l’uomo cristiano dall’uomo
antico. La tradizione biblica e la redenzione, si basano tutt’e due, sulla
tragedia e sul rimpianto del paradiso perduto. Una sorta di nostalgia appunto, e infatti, cos'altro significa questa parola se non, ritorno di un dolore?
Ulisse sceglie, invece, di vivere la sua vita di uomo, di
creatura fragile, preda della malattia e della vecchiaia, partecipe di
un’avventura impossibile e impagabile, ma per questo
incomparabilmente più bella: di cercare la patria sempre amata e sempre
sfuggente.
Questo lavoro, è una sintesi perfettamente riuscita, tra
letteratura, storia e archeologia, condotta, sì, con la precisione e il rigore
di uno storico, ma anche, e questo è un merito molto raro, con la grazia e
l’eleganza di un romanziere, in cui, l’autore, ci ricorda l’importanza di non
dimenticare quali sono le nostre origini, ma anche ci riconcilia con il
coraggio, e, quindi, anche con la
precarietà e l’impermanenza, di un eroe, così, finalmente “ umanizzato”.
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