sabato 9 novembre 2019

Dracula.





E’ stata un’ occasione  del tutto personale e accidentale, ma per questo feconda di risonanze emotive profonde, a suggerirci di tornare sulla figura di Dracula e il suo mito: la visione di Dracula, film del 1992, per la regia di Francis Ford Coppola,  anche se lontano  dal fascino e dalla complessità anche psicologica del Conte Dracula, almeno quale emerge dagli autori di prima grandezza che se ne sono occupati, soprattutto dell’ Ottecento, tra i quali,  spiccano, per l’assoluto magistero letterario raggiunto, E. T. A Hoffmann  e Nikolaj Gogol’, che con Il Vj (1835) produce la sua novella più perfetta.

Intanto, in Inghilterra, patria  del Romanzo Gotico, la figura del Vampiro era entrata nell’immaginario, almeno al livello della nascente stampa popolare. E’ in questo contesto, come si può facilmente intuire, assolutamente favorevole,  che Bram Stoker, scrive Dracula, e che ha come vedremo un’origine assolutamente particolare: un sogno. Quindi per meglio dire più che scriverlo, Stoker visualizza il romanzo, cioè alla base della sua creazione non c'è un atto razionale, o non solo, ma bensì una  visione.  

 Era una notte di Marzo del 1890, quando Stoker svegliatosi di soprassalto, da un incubo o visione notturna se si preferisce, tracciò in fretta queste righe su un foglio di carta:

Un giovane esce, e vede tre fanciulle.
Una di loro cerca di baciarlo, non sulle labbra ma sulla gola.
Il vecchio Conte interviene.
Con rabbia e furia diaboliche.
“ Quest’uomo mi  appartiene . Io lo voglio.”

In quest’ esile traccia così trascritta, c’ è in nuce tutto il romanzo, e stupisce, come da un’embrione così concentrato, si sia potuto sviluppare un organismo narrativo ampio e  articolato nella trama e nella struttura. E’ palpabile, fin da queste righe, una venatura erotica, che rappresenta uno dei motivi del suo straordinario successo, fin dalla sua pubblicazione, il libro uscì nel 1897, perché la figura del Vampiro è diventata il simbolo liberatorio nei confronti delle repressioni vittoriane in materia sessuale. 

Dracula, è in effetti espressione di una sessualità talmente prorompente da essere totalizzante (ed in questo il film di Coppola riesce perfettamente a rappresentare tale natura).  L’unione con Lui non significa solo e soltanto perdita della purezza e dell’innocenza, ma remissione e annullamento totale di sé, assorbimento nella non vita, nei non morti, quindi, esclusione sia da questo mondo che dall’altro.





Il sesso, diviene, qui, contaminazione assoluta e espressione di un disordine universale, in cui cadono non soltanto i limiti della normale morale sessuale, comunemente accettata, ma persino i confini fra morte e vita, in una sorta di “stupro cosmico” contro le leggi della natura.

Se però il tema erotico era presente e connaturato già in epoca classica con la leggenda stessa del Vampiro, e ripreso da molti autori, nel suo romanzo, Stoker aggiunge, un tratto originale, che trova le sue premesse culturali e la sua giustificazione più profonde,  proprio nel positivismo di matrice vittoriana. Stoker, infatti, pur accettandone l’origine soprannaturale, cerca di spiegarne i comportamenti, con strumenti razionali, sulla base di leggi naturali, al lume della sola ragione. Si assiste, quindi, a un paradosso. Stretto fra due poli , apparentemente opposti e contraddittori, quali -  l’origine medievale della tematica e la trattazione positivistica degli eventi, già frequentata da molta letteratura romantica - , Il Dracula, di Bram Stoker, diventa figura dall’alto valore simbolico. E’ colui, che non soltanto ribalta l’ordine e il corso naturale degli eventi, ma è anche incarnazione e erede delle energie istintuali, che giacciono al fondo dell’uomo, e che diventano terribili e incontrollabili, appunto bestiali, una volta scatenate. 
   
Questa fortissima suggestione, noi pensiamo, è anch’essa uno degli ingredienti alla base, dell’enorme successo del romanzo. Dracula è forse l’unico personaggio puramente letterario che abbia inciso a tal punto su un immaginario collettivo, da produrre, in alcuni casi, alla stregua di poche altre figure storiche, un processo di identificazione, così da poter arrivare, ai giorni nostri, con una potenza profetica e visionaria, pressoché intatte e per questo ancora attuali.   
  
  

La Chimera e il nulla. Ai confini della poesia e della storia.


La Chimera di Sebastiano Vassalli, è stata riedita, del resto come tutta la sua opera, da Rizzoli, con un’appendice dello stesso Autore, che ha per titolo: Alcune considerazioni su questo romanzo dopo un quarto di secolo; la Chimera esce appunto nel 1990.

 Seguendo l’esempio di Manzoni, che credeva di riscoprire nel Seicento le radici dell’Italia moderna e che credeva che appunto in quel secolo, si fossero formate il carattere, l’indole e l’identità stessa degli italiani, e che due avvenimenti del recente passato, la Controriforma della Chiesa Cattolica, da un lato, e la dominazione spagnola a Milano e a Napoli, dall'altro, abbiano costituito la radice e l’origine del nostro carattere nazionale, anche Sebastiano Vassalli,  decide di ambientare il suo romanzo nel Seicento. Lo spirito però che anima Manzoni, anche se è stato il primo a riflettere sul carattere degli italiani,   è completamente diverso. Infatti, uomo del Risorgimento, cioè della sua epoca, Alessandro Manzoni rappresenta il Seicento,  “corretto con molto Ottocento”, basti pensare alla figura di Don Abbondio che è un prete contemporaneo del suo autore, scegliendo, per questo,   di darne una rappresentazione edulcorata  e  di non  raffigurarlo per quello che in realtà il Seicento fu: secolo terribile e violento . E questo anche perché, l’Italia, che doveva ancora nascere, ci si augurava che nascesse con i migliori auspici e con il suo aspetto migliore.

Vassalli, si situa, invece, in una posizione e in una prospettiva completamente diverse, opposte persino, dipingendo il Seicento così com’era, senza aggiungervi né togliervi nulla, nelle sue turpitudini, nelle sue nefandezze, nei suoi vizi, nelle sue terribili bestialità, ma anche nella sua tragica bellezza. Così, infatti, è sempre stato l’uomo e chissà, sempre così sarà, certamente non sostanzialmente diverso da come è oggi. 

Antonia, protagonista di questa storia, diventa espressione proprio di questa tragica bellezza, emblema dei destini umani, rappresentando uno spazio a sé, in cui si alterano e si modificano profondamente l’ordine e il corso naturale delle cose e degli eventi, rispetto ai quali, soprattutto dopo la sua condanna a morte come strega, si viene ad attuare un profondo cambiamento nella concezione del mondo, della vita e della persona. Antonia costituisce appunto, uno scarto, uno spartiacque tra un prima e un dopo, rifondando, anche se del tutto inconsapevolmente, il mondo, secondo una prospettiva mitica che ha in sé il potere sia di sconvolgere, sia però anche di inaugurare  una nuova concezione del tempo e dello spazio, dilatati,   e non più solamente lineari, in cui tutto è possibile e quindi tutto può accadere,  che anche la brutalità più efferata diventi norma.  Il Seicento, come ebbe a dire anche George Steiner, forse il secolo più brutale della storia dell'umanità, anche più del XX secolo, viene rappresentato in tutta la sua verità, ben lontana, quindi, dalla visione ideale ottocentesca. 

Cosa sono, infatti, le vite di noi tutti, riflette Vassalli, se non altro che un inutile sperpero nel vano e assordante clamore del presente, cos’altro sono, se non  un’ombra e un impercettibile respiro, rispetto al nulla e alla notte, in cui tutti siamo immersi e a cui noi tutti siamo destinati, cosa siamo, infine,  noi tutti,  se non una folle, fuggevole Chimera, appunto?  


Ulisse. Il destino dell'uomo tra nostos e lbertà.


Tra i numerosissimi studi sul pensiero antico e in particolare sulla sua Letteratura, soprattutto  quella greca, ci ha colpito, fin dal titolo, il libro di Valerio Massimo Manfredi: Mare  greco. Eroi ed esploratori nel Mediterraneo antico. Infatti, richiamare l’attenzione sul Mediterraneo che, prima di essere luogo dello scontro tra Islam e Cristianesimo, era il bacino egemonizzato dalle navi greche per diffondere ovunque le usanze e la cultura della madrepatria, ci è sembrato interessante, o quasi necessario, per ricordare, a noi occidentali, che lì abitano le nostre radici, lì sono nate la nostra identità e la nostra natura più profonde.

In una civiltà, non va affatto dimenticato, alla base della quale, vi erano i miti e le leggende, di uomini che per primi avevano intrapreso le rotte del mare interno, sfidando, in modo eroico, non solo la paura dell’ignoto ma anche sé stessi,  dimostrando, così, un’ inesausta sete di conoscenza, in cui, si esprimeva anche la loro aspirazione a conoscere popoli diversi da loro, ad aprirsi e a confrontarsi, si direbbe oggi, con  “l’altro da sé”, senza averne paura.  
  
 Quello di Manfredi è uno straordinario viaggio nel mito che propone alcune interpretazioni nuove e originali, come l’ubicazione dell’isola di Calipso, delle terra dei Ciclopi, e anche di Odìsseo, e questo, anche per ovvi motivi, non è affatto scontato.




Il distruttore di Troia, ci viene presentato, sin dall’incipit dell’ Odissea, come pulotropon, letteralmente  “dai molti modi”  o se si preferisce “ molteplice”,  “multiforme”, aggettivi ai quali, è utile ricordarlo, è stato attribuito un significato, sostanzialmente negativo, che caratterizza Odìsseo, almeno prevalentemente, come una figura ambigua,  ingannevole, talmente astuta da evitare, da tenere lontana. 
   
Ci appare come un uomo, abbattuto dall’amara sorte, quasi annullato dal terribile destino, un uomo che ha perso tutto, infine la sua stessa libertà; è infatti, prigioniero, da sette anni, di una bellissima ninfa, Calipso, che lo tiene tutto per sé, in un’ isola meravigliosa, quasi una sorta di terra beata, di Paradiso Terrestre, ma nondimeno, Ulisse rifiuta l’immortalità che gli viene offerta, anche se il suo cuore è pieno di sconforto e di angoscia perché il ritorno gli viene negato .

 In questo stato d’animo si può vedere tutta la distanza che separa l’uomo cristiano dall’uomo antico. La tradizione biblica e la redenzione, si basano tutt’e due, sulla tragedia e sul rimpianto del paradiso perduto. Una sorta di nostalgia appunto, e infatti, cos'altro significa questa parola se non,  ritorno di un dolore?

Ulisse sceglie, invece, di vivere la sua vita di uomo, di creatura fragile, preda della malattia e della vecchiaia,  partecipe di  un’avventura   impossibile e impagabile, ma per questo incomparabilmente più bella: di cercare la patria sempre amata e sempre sfuggente.

Questo lavoro, è una sintesi perfettamente riuscita, tra letteratura, storia e archeologia, condotta, sì, con la precisione e il rigore di uno storico, ma anche, e questo è un merito molto raro, con la grazia e l’eleganza di un romanziere, in cui, l’autore, ci ricorda l’importanza di non dimenticare quali sono le nostre origini, ma anche ci riconcilia con il coraggio, e,  quindi, anche con la precarietà e l’impermanenza, di un eroe, così, finalmente “ umanizzato”.







Campana. La notte e il nulla come destino dell'uomo.


La notte della cometa, romanzo sulla vita e il destino terreno di Dino Campana, il “babbo matto”, così lo definisce il suo autore, Sebastiano Vassalli, è stato riedito da Rizzoli  nel 2015. Dopo trent’anni dalla sua pubblicazione, era il 1984, mantiene intatto il suo fascino, e, per i motivi che diremo, rappresenta oggi, ancora più di ieri, un’occasione per riflettere sulla natura profonda e insondabile della Poesia.

Già dal titolo,  quest’autobiografia è eloquente circa il destino di Dino Campana, che fu un’assoluta eccezione nel panorama accademico e stagnante dell’Italia di quell’epoca,  di cui fu vittima, dominato com’era dalla moda e dalla retorica futuriste; infatti, La notte della cometa sembra avere in sé già una visione dell’arte e della poesia come spazio assoluto, originario e per questo universale,  per poter  raccontare le passioni e i destini umani, quindi, apertamente in contrasto e oltre l’immediatezza dei manifesti letterari, delle mode e delle stereotipate definizioni dell’establishment del suo tempo.

 La notte della cometa… già sembra di udire come un’eco lontana, una voce fatta di silenzio e di oblio che ci parla di un mondo sommerso, dal quale sembrano emergere solo frammenti, come dei bagliori (…) e a un tratto dal mez/zo l’acqua morta le zingare e un canto, da la palude\/ afona una nenia primordiale monotona ma irritante: e del tempo fu sospeso il corso. E’ come se ci si trovasse nel dormiveglia, in uno stato in cui i nessi logici tra le cose e le parole sembrano allentarsi, diventando in questo modo però più potenti ed evocativi, per raccontarci la storia di un oltre , di un mondo lontano , più vasto, dove il nostro sguardo si perde, … là in alto, nel cielo stellato (…) Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti/ E l’immobilità dei firmamenti/ E i gonfi rivi che vanno piangenti/ (…) E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti/ E ancora ti chiamo  ti chiamo Chimera.

 Dino Campana pagò caramente, con la totale emarginazione dai circoli letterari della sua epoca, la sua idea quasi epica, “ eroica” della Poesia, clandestina appunto, perché non  contemporanea a nulla, sfidando l’indifferenza e l’ostracismo di intellettuali, tra i più influenti del suo tempo, come Soffici e Papini, che lo isolarono completamente, lasciandolo in balìa del suo folle tragico destino: una Chimera appunto, un’apparizione che ha lasciato, sì, un segno profondo ma quasi involontario, inconscio, inavvertito, quasi come una stella cadente che risplenda, per pochi attimi, come in un sogno, per poi tornare di nuovo nell’oscurità, lasciandoci increduli, stupefatti, come in una fiaba…  Questo, ahimé, fu l’amaro destino di Dino Campana, che non fu certamente un grande poeta come Goethe, ma che ebbe il merito indiscusso di proporre, con la sola forza della sua anima e del suo destino, una poesia che esplorasse i confini dell’umano e del sogno, una  “ voce”  che cantasse la notte,  pur se con l’intensità assoluta ma, ahimé troppo breve, di una Cometa.   

Lovecraft. Alle origini del fantastico e del meraviglioso come condizione dell'esistere umano.


A suscitare il nostro desiderio di tornare su Lovecraft con alcune riflessioni, che come vedremo, andranno al di là della sua stessa opera, hanno agito due elementi. Da una parte, la pubblicazione per la Newton Compton di Tutti i romanzi e i racconti, edizione che comprende una scelta importante della sua sterminata produzione saggistica, che,  noi pensiamo, possa essere utile per retro illuminare e comprendere le motivazioni più profonde della sua narrativa, troppo spesso semplicisticamente interpretata, come una rivolta ideale, contro le costrizioni “ imposte” dalla ragione; dall’altra la visione di It, del 1990, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen king.

Entrambi questi autori, pur se in epoche completamente diverse, e con esiti molto diversificati, anche in sede estetica, hanno esplorato il mondo del fantastico, costruendone una vera e propria Geografia, e questa, ciò vale soprattutto per Lovecraft, solo apparentemente e in superficie è priva di trama e di senso logico, ma invece, come ha osservato  Pietro Citati, dietro ogni testo abita un testo nascosto: dentro i libri che noi vediamo, ce ne sono altri, segreti, che non vediamo,  e di cui lo stesso Lovecraft,   è inconsapevole e nemmeno sa di avere scritto.  E’ come se, proseguendo questa bellissima immagine, ci si trovasse in un labirinto fatto ad incastro, e di fronte ad una porta se ne aprisse un’ altra, così, di seguito,  senza interruzione,   come in un unico sogno, all’infinito.  Quindi, è come se,  ci si trovasse di fronte a innumerevoli e fuggevoli  apparizioni dello stesso “ discorso”, al quale l’Autore, sembra non mettere  mai la parola “fine”, e che però affiora, attraverso il ritorno di alcuni simboli, o rapporti interni, o segrete corrispondenze, nelle quali,  è possibile, così , “  leggere” una trama.

Quale può essere allora, ci domandiamo, la radice dell’inspiegabile fascino,ancora oggi esercitato   dopo decenni dalla sua morte, dal solitario di Providence?

Forse una risposta,  anche se incompleta e parziale, si può trovare, in un suo saggio, Tempo e spazio, in cui l’Autore si domanda “ (…) dobbiamo ricordare che lo spazio non ha confini,(…) abissi illimitati si estendono oltre la nostra vista e la nostra comprensione (…). Quale mente osa tentare di immaginare quei regni lontani dove forma(…), materia ed energia, possono essere soggetti a mutamenti impressionanti (…) e, vorremmo aggiungere, al di là del nostro controllo,  o di quello che la nostra sola “ragione” può immaginare?  Proprio qui, in queste poche righe, si può trovare, almeno una, delle  tante ragioni possibili, per comprendere il fascino di Lovercraft.

 Lovecraft, non solo non ha avuto paura di indagare le più inconfessabili e  segrete paure, i fantasmi più profondi e originari dell’uomo, ma ha avuto il grande talento di dar loro forma e corpo, un “volto”, per poterli, così, finalmente accettare e riconoscere, come condizione essenziale del nostro cammino, ricordandoci, infine, la vastità e le  enormi possibilità dell’esistere, alle quali, noi tutti, in quanto membri di una specie, siamo sempre affacciati e siamo destinati a vivere.  

             






Salgari e la mitologia dell'esotico e del fantastico.










Alcuni anni fa, nel 2017, la Newton Compton, ha pubblicato I cicli completi della Jungla e dei pirati della Malesia, di Emilio Salgari, per la cura di Sergio Campailla, che in alcuni interessanti saggi,  ne ridisegna e ricontestualizza la figura e l’importanza. Infatti è stato  per troppo tempo rimosso dalla letteratura ufficiale, o supposta tale,  e tutt'al più frettolosamente bollato scrittore per l’infanzia o addirittura per ragazzi, come se questo fosse un disonore.   Anche se la nostra analisi acquista  forza e significato,   proprio perché agisce retrospettivamente, per apprezzarne la novità e l’originalità, almeno ad una prima lettura,  basterebbe anche solo dare uno sguardo obiettivo alla cultura e al panorama letterario di fine Ottocento e inizio Novecento, dominato, com’era, da autori come Carducci, Pascoli e D’annunzio, anche se altri, ovviamente, sono stati i suoi modelli, come Verne e Stevenson.   Ebbene, in un’ Italia, così imbevuta di fanatismo e di retorica, Salgari ha avuto il coraggio di gettarsi a capofitto nella finzione, creando così un cosmo dell'avventuroso e una geografia dell’immaginario, che hanno sostanziato gran parte del genere avventuroso successivo. 

Autori di caratura e di spessore così diversi tra loro: quali London, Conrad, e soprattutto per il senso dell’esotico, Kipling, ne Il libro della Jungla e ne Il secondo libro della Jungla, e Forster, potevano raccontare quello che avevano visto con i propri occhi, mentre la geografia di Salgari rimane di qualità puramente fantastica, come dimostrano, infatti, le distanze assolutamente indeterminate, se non addirittura  chimeriche, in cui si muovono i personaggi dei suoi romanzi, come ad esempio tra il Borneo e Calcutta, tra Calcutta e Delhi, come se fossero lì a due passi.



      
Questa caratteristica che può sembrare, ad uno sguardo più immediato e di  superficie, una sciatteria quasi irritante, un errore grossolano, gioca invece come punto di forza a suo favore perché  contribuisce a creare un senso del “ favoloso”, in cui, i protagonisti di queste storie diventano essi stessi personaggi di un mito moderno, reinventato con degli oggetti, quasi rituali, come ad esempio il Kriss o il laccio mortale dei Thugs, ne I Misteri della Jungla nera, elementi,  che danno un ritmo travolgente alla narrazione, lasciandoci in uno stato di suspence, quasi sempre tramortiti e senza fiato .


Si può, quindi legittimamente affermare, senza paura di essere smentiti, che Salgari ha avuto il merito di intuire l’importanza di esplorare l’ Oriente, da un punto di vista del fantastico e del meraviglioso, aprendo ad un immaginario che ancora oggi nutre, e  dà linfa vitale  a tanta narrativa e tanto cinema contemporanei. Pensiamo, ad esempio, a molto del cinema d'avventura degli anni ottanta del secolo scorso, come il ciclo di Indiana Jones o All'insguimento della pietra verde, andando anche a costituire, almeno a parere di chi scrive, il prototipo di molti best seller americani, come Ken Follet oppure, anche se in  un modo del tutto diverso, hanno contribuito a sostanziare il mondo fantastico e onirico di Stephen King, pure se, e questo non va dimenticato,  in un ambito completamente diverso: quello horror. Fatto questo, che impone Salgari  come autore di assoluto rilievo, nient’affatto secondario,  sottraendolo, così,  di diritto  all'etichetta, ormai insopportabilmente riduttiva, di scrittore solo “per ragazzi”. Come se poi" fosse così facile raccontare ai ragazzi."..